mercoledì 21 aprile 2010

SINUHE L'EGIZIANO... "Mi hai dato da bere la Morte, Sinuhe?"

Ok ragazzi.. diciamoci la verità: il corso di Storia della Medicina tenuto dalla Lippi è piaciuto, a chi più a chi meno, soprattutto perché l'esame consisteva nel leggere un libriccino e fare una paginina di commento (non nascondiamoci dietro un dito, signori, via...).
Cercando un libro da prendere in esame mi sono imbattuto in Sinuhe, ma poi, data la mole dell'oggetto - 538 pagine - mi sono reso conto che leggerlo e recensirlo in una settimana era un'impresa improponibile, ed ho quindi cambiato meta. Ma, scosso da curiosità, ho poi deciso di leggerlo. Alla fine aveva un che di interessante il mattone. E ce l'ha.
Sinuhe l'Egiziano, opera di Mika Waltari - gli svedesi non hanno solo l'Ikea, a quanto pare - è una storia autobiografia: comincio a pensare che questo genere sia il più gradito da chi vuol scrivere di medicina o dintorni. Vabè... andiamo avanti. La trama è tanto prevedibile (nel senso buono del termine) quanto, a motivo della sua stessa prevedibilità, gradevole: il piccolo Sinuhe, forse orfano, forse indesiderato, biblicamente abbandonato lungo le sponde di un Nilo sempre pietoso con i neonati e mai con chi già è più grandicello (a quanto pare i suoi famelici coccodrilli devono considerare indigeste le ceste di vimini), viene accolto da Senmut e Kipa, un medico popolare/popolano e sua moglie, che decidono di allevarlo. Sinuhe è un bimbo dalla pelle chiara, armonico nelle forme, e cresce bene, forte. Poi viene introdotto da suo padre, chiamiamolo così, all'ambiente medico. E lì si accorge della sua vocazione. Incontra il Faraone, Akhenaton, il successore Tutankamon, il padre di Ramses, Horemheb. E proprio Akhenaton lo ribattezza, dopo una strana cerimonia rituale a seguito della morte di suo padre il Faraone (cui Sinuhe assiste in qualità di aiuto medico) "Sinuhe il Solitario". Particolare importante, per quanto esso possa apparire inconsistente.
A parte che io devo capire perché tutti i racconti di medici hanno a che fare con "diversi" che sentono la "chiamata", la "vocazione" (fondamentalmente penso che ci dipingano come degli alieni verdi) e perché tutti i medici di film e libri incontrano i peggio pezzi grossi del loro tempo, ora sarebbe interessante capire come mai questo libro è interessante. Procediamo per gradi.
  1. Analizza il periodo storico in maniera impeccabile, anche meglio del già citato Medicus che si porta appresso una caterva di errori storico-culturali agghiacciante;
  2. Si spinge oltre agli stereotipi del medico che deve salvare il mondo pena la condanna eterna e l'oppressione del rimorso per aver perso troppe vite: nessun "Oh mio Dio, avrei potuto salvarne di più" (Schindler's List e Steven Spielberg mi perdoneranno per la citazione forse crudele in questo caso) che possa dare adito a sentimentalismi o buonismi che, nella professione medica di tutti i giorni, potrebbero risultare stonati o eccessivi. Sinuhe è un medico che si rende conto, presto o tardi, che non si può soffrire per tutti. Non è crudeltà la sua, bensì difesa: un meccanismo di difesa che gli consente di andare avanti senza perdersi in tristi pensieri; alla base di tutto rimane un animo sensibile, che si stupisce e soffre per la crudeltà del mondo. Eppure smette di soffrire dopo un po', capendo che proprio quella sofferenza gli impedisce di essere il medico che può, in effetti, aiutare, "salvare" - volendo essere ottimista - la gente...
  3. È umano. E basta.
Non voglio dilungarmi troppo come ho fatto con Medicus: Sinuhe è un libro molto intimo, molto personale, che male si presta a interpretazioni generalizzate e generali. Ognuno deve coglierlo con la propria sensibilità, dal momento che non si tratta di fatti, ma di sentimenti. Vi lascio con una citazione, con la chiusa che l'autore sceglie sensibilmente di porre nel comporre e terminare il suo falso storico in forma di memoralia - una sorta di Res Gestae ante litteram.

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Poiché io, Sinuhe, sono un essere umano. Io sono vissuto in tutti coloro che sono venuti prima di me e vivrò in tutti coloro che verranno dopo di me. Vibrò nelle lagrime e nel riso degli uomini, nel dolore e nel timore umani, nell'umana bontà e nella malvagità, nella giustizia e nell'ingiustizia, nella debolezza e nella forza. Quale essere umano vivrò eternamente nell'umanità. Non desidero né offerte alla mia tomba, né immortalità al mio nome. Questo è stato scritto da Sinuhe, Egiziano, che visse solo in tutti i giorni della sua vita.

3 commenti:

  1. Deve essere bello Andre e ovviamente benchè il periodo storico sia quello ci si accorge che le tematiche, perlomeno per come le hai descritte, sono analoghe al contemporaneo!come sempre del resto! Mgari il fatto che lui dica che "non si può salvare tutti" può sembrare cinico anche se alla fine può esser vero..
    l'unica critica è sulla citazione a Schindler..ovviamente si fa per ragionare dopotutto un blog serve anche a questo..perchè credo che trovandosi in una situazione come è appunto quella del film citato i bonismi non c'entrano ma probabilmente l'avrebbe pensato chiunque..
    so che era un riferimento superficiale il tuo però oggi son critica e voglio romperti un pò le scatole!!=)

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  2. no, ma difatti.. il senso che volevo dare era il seguente: in un contesto come quello di Schindler una frase del genere ci sa anche; è nella professione medica che io almeno penso sia inabilitante: se un medico si fermasse ogni volta che qualcosa non va come dovrebbe non riuscirebbe mai ad essere un medico "utile" (mi si passi il termine). So benissimo che il malato non è un numero, ma dobbiamo anche entrare nell'ottica di fondo che, ragazzi, la vita finisce, le cose si rompono e le persone muoiono: se saremo certi di aver fatto tutto il possibile non avremo niente da rimproverarci.. e non saremo dei mostri se, nonostante qualcosa sarà andato storto, riusciremo ad andare avanti pensando che il nostro lavoro sarà (speriamo) quello di aiutare le persone e non quello si piangere chi non ce l'ha fatta.

    (è una mia personalissima opinione, e per questo criticabile..)

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  3. Mi scuso per aver capito male il riferimento al film!
    in ogni caso d'accordissimo sul fatto che se non ce la dovremmo fare nell'aver salvato un paziente bisognerà tirare avanti e lasciar stare anche perchè è probabile che nel mentre noi saremo lì a disperarci per la morte di uno altri 3 stanno facendo la sua fine e non li stiamo aiutando.
    credo anche che però non si possa ridurre il tutto a "la vita finisce, le cose si rompono" il che è vero però su questo io preferisco pensare ai pazienti come persone e son totalmente convinta che una malattia si può combattere con risultati più o meno positivi ma se si riesce a prendersi cura della persona esulando dal semplice aspetto medico si otterranno sempre dei successi. Ci sono gli psicologhi per questo mi dirai te, però alla fine non penso che per regalare il sorriso ad una persona che sta male semplicemente ascoltandola oppure chiamandola per nome e non "quella della 11(o qualsiasi altra stanza)" sia così difficile e impossibile (so che su questo la pensi come me) anche perchè quelli che cureremo hanno bisogno di sentire che ci siamo e secondo me se recipiscono che oltre a tutto riusciamo anche a concedere una parte di noi la loro fiducia aumenterà e questo potrebbe migliorare la cura. Passi che all'inizio non sarà facile fare questo lavoro, inevitabilmente ci affezioneremo a pazienti e quando li vedremo andarsene questo ci farà del male, è insito nell'uomo e non credo ci si possa far niente, non ti dico che ci abitueremo alla morte però con l'andare del tempo credo che ognuno di noi saprà trovare il giusto equilibrio per tutte le cose e decidere di conseguenza.....

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